La Mostra

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La Milano di Jacopo Ascari, un’urbanità emozionale

Piergiorgio Vitillo

Ho conosciuto Jacopo Ascari nei suoi primi anni al Politecnico di Milano, nel contesto di un Laboratorio di progettazione urbana, dove da subito si è distinto per curiosità e passione, 1 requisiti indispensabili per un buon progettista, ma anche per mano felice e assieme originale e fresca. Sono rimasto da subito incantato ai suoi moodboard, efficaci e belli assieme, costruiti con mappe iconiche, capaci di tratteggiare quel reticolo invisibile cui la vita e le attività delle città si aggrappano, ma anche con plastiche prospettive plananti, con il punto di vista sollevato dal suolo, il più avvantaggiato per documentare i paesaggi mantenendone un’elegante e necessaria distanza (Lindbergh 1955). Le 12 tele presentate in Mostra compongono scenari architettonici e urbani, sperimentazioni e processi creativi, figure della moda (12 porte, 12 momenti progettuali), con l’obiettivo, ambizioso ma raggiunto, di raccontare la tensione verso il futuro che ha sempre caratterizzato Milano, la sua straordinaria propensione al cambiamento, in grado di trasformarla incessantemente. 

Guardando i suoi disegni ci accorgiamo infatti che non ci muoviamo in ambienti dati, piuttosto ne facciamo parte, nel farsi del loro ininterrotto divenire: i luoghi non sono statici, ma come vissuti mentre si plasmano, intessuti, sovrascritti; linee intrecciate e coaguli di nodi – e colori – che continuamente si alternano e si modificano, come le nostre vite (Ingold 2020). Si tratta di una tensione e di un’attitudine progettante mostrate con naturalezza – il più difficile degli artifici – che mi piace raccontare, attraverso le tre dimensioni che, al mio osservare, i suoi disegni, le sue tele e i suoi progetti contemporaneamente esprimono: diventano modo di pensare; collocano la città al centro; raccontano il piacere di disegnare.

Il disegno, per Vasari il padre delle arti, 2 dà forma al pensiero e rappresenta la dimensione necessaria per conoscere e interpretare la profondità e la complessità del mondo. Disegnare con la tavoletta grafica è certamente utile e comodo, ma la tecnologia acquista funzionalità e senso se non ci si accorge che è stata utilizzata. Per quelli della mia generazione, che hanno faticosamente imparato a disegnare con l’inchiostro di china e la stilografica, utilizzati come dispositivi per pensare, la tavoletta grafica rappresenta un medium e una protesi malagevole e innaturale, mentre nulla toglie all’immediatezza, alla piacevolezza, alla freschezza dei disegni di Jacopo, dai quali traspare una doppia relazione: le differenti metriche spaziali (più che gli oggetti, contano le relazioni che fra questi intercorrono) e la presenza sinergica di parole e immagini (che si aiutano reciprocamente per dare forza alle idee e al racconto). All’interno di questo fertile binomio relazionale, Jacopo coglie e racconta la complessità urbana, con la capacità contemporanea di mescolare dispositivi, tecniche, funzionalità, per molti aspetti differenti e distanti. Il tutto attraverso un’immediatezza di racconto e di costruzione del progetto, inteso come esito da raggiungere attraverso e con il disegno, spremuto quale metodo e guida per l’organizzazione, la scomposizione e la ri-articolazione narrativa delle idee.
Jacopo ama le città, passione e contagio che temo di avergli in parte trasmesso, e ama in particolare Milano e non solo perché rappresenta la città della moda per eccellenza, l’altra sua grande passione. In realtà, attraverso il linguaggio della moda, Jacopo parla di architettura e progetto, con la città come sfondo pervasivo, comunicandola attraverso un articolato racconto urbano e descrivendola attraverso scenari urbani e architettonici, riecheggiando il progetto Domus Moda, 3 interpretato però attraverso la nobile tradizione del disegno iconico Ottocentesco, filtrato dagli insegnamenti della grande illustrazione moderna e urbana (Belpoliti, Ricuperati 2005, Pallottino 2020), arricchiti dall’amore per la moda e per il bello (Sottsass 2010, Mendini 2016). Le tele presentate in Mostra tratteggiano tre fasi della città, che rappresentano un cambiamento epocale e assieme di scala della città, disvelandone la grammatica urbana: la Milano Ottocentesca, caratterizzata dalla bellezza ordinaria ma elegante del Piano Beruto (1884-1889) e dalla persistenza della forma-isolato; la Milano del Secondo Dopoguerra, rinata e trasformata attraverso il miracolo economico e l’impetuoso sviluppo industriale, che prendono slancio e forza dalla riconosciuta attitudine meneghina al fare; la Milano contemporanea, rappresentata dal nuovo skyline dei grattacieli diventati, a partire da Expo 2015, cuore pulsante di una Regione urbana multicentrica, estesa, reticolare. Rappresentazioni di Milano assai diverse, ma che hanno quale comun denominatore la forza e l’ineluttabilità della metamorfosi e del metabolismo urbano, formale e funzionale, che caratterizza l’attitudine e la disponibilità della città al cambiamento: uno straordinario palinsesto insediativo, che Jacopo coglie e rappresenta con un’urbanità emozionale, nutrita da una passione smisurata per la sua città d’adozione.
Il piacere del disegno risiede nell’atto di disegnare, nel desiderare di farlo e nella tensione positiva che questo produce, più che nella sua realizzazione pratica (Nancy 2017). Un piacere estetico ed etico assieme, intrecciato inevitabilmente all’idea di promuovere la bellezza, qualunque definizione se ne possa dare, ma bellezza bruciante, che abbaglia e contagia. E il contagio della bellezza è prerequisito necessario per riconoscerla e apprezzarla: Jacopo se ne dichiara innamorato e possiede la capacità di rappresentarla con distacco e al contempo partecipazione, come qualcosa che va oltre i canoni estetici, lasciando una sensazione che colpisce e non lascia indifferenti (Eco 2012). Il pittore vede il mondo attraverso il proprio sentire sensoriale, cercandone una sintesi emotiva, mentre l’illustratore aspira a raccontarlo attraverso una fitta trama di rimandi e associazioni (Steinberg 2001). Veri e propri occhi sulla città, 4 che possono alimentare idee, riflessioni, progetti, le tele di Jacopo, attraverso un’interpretazione illustrata della storia di Milano, mescolano attitudine sensoriale e capacità di narrazione, in un connubio che riconosce e apprezza i contesti e i luoghi che generano relazioni, mettendo in luce quella generosità urbana che contraddistingue la cultura e la bellezza civile delle città europee ereditate dalla storia, che Milano così ben rappresenta (Consonni 2013).
Belpoliti M., Ricuperati G. (a cura di, 2005), Saul Steinberg, Marcos y Marcos, Milano. Bettinelli E. (2014), La voce del maestro. Achille Castiglioni. I modi della didattica, Corraini, Mantova. Consonni G. (2013), La bellezza civile. Splendore e crisi della città, Maggioli Editore, Milano. Eco U. (2012), Storia della bellezza, Bompiani, Milano. Ingold T. (2020), Siamo linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali, Treccani, Milano. Lindbergh C.A. (1955), Spirit of St Louis. La prima trasvolata atlantica, Einaudi, Torino. Mendini A. (2016), Scritti di domenica, Postmedia Books, Milano. Nancy J.L. (2017), Il disegno del piacere, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano). Pallottino P. (2020), Storia dell’illustrazione italiana. Cinque secoli di immagini riprodotte, La Casa Usher, Firenze. Sottsass E. (2010), Scritto di notte, Adelphi, Milano. Steinberg S. (2001), Riflessi e ombre, Adelphi, Milano

Il segno di Jacopo, la sua verità

“È vero, principe, che un giorno avete sostenuto che la bellezza avrebbe salvato il mondo?

Signori, esclamò prendendo a testimoni l’intera società, il principe sostiene che la bellezza salverà il mondo e io sostengo che se ha delle idee folli è perché si è innamorato.”

               (Fëdor Dostoevskij, L’idiota)

Proprio con i suoi disegni che Ascari traduce il pensiero del principe. Viviamo in una società volgare che ha quale credo l’ostentazione esasperata, eppure lui sa scoprire e vedere la bellezza, e regalarla a noi.

Concepire, tracciare nella mente le linee essenziali di un’opera: Ascari è un disegnatore naturale, dotato di abilità fin dalla nascita, ma anche un’incredibile passione per questo mezzo. La rapidità esecutiva gli permette di pilotare come se nulla tra il pensare e il fare si interpone, un processo naturale dunque, che dà al talento la sua verità. Sono molti gli artisti che hanno questa capacità esecutiva, ma sono pochi quelli che attraverso il “segno” determinano nel tempo il loro stile inconfondibile.

Ebbi occasione di conoscere Jacopo Ascari al vernissage della mia mostra in Italia nel settembre 2021 e fu autentica empatia, quando vidi i suoi disegni mi resi conto del suo potenziale creativo. Osservando il suo lavoro si viene sopraffatti da un affollamento di informazioni all’interno della tela quasi fosse un collage, Ascari non disegna per lui o per noi, attinge dal profondo del suo “io” senza minimamente preoccuparsi del fruitore.

Particolarmente curioso l’uso del colore rosso che in un contesto sospeso tra architettura e moda da al “quadro” il peso del tempo presente e caotico oggi.

Antonio Guccione

L’amico speciale

Ho conosciuto Jacopo Ascari qualche anno fa, a memoria, mi sembra da tutta la vita. Ci siamo conosciuti in un famoso bar di Milano, il bar Cucchi. Ci siamo incontrati perché, attraverso un caro amico mio e suo, Giancarlo Sessa, io avevo avuto l’opportunità in questa occasione, di fare un colloquio con Jacopo per la figura di Coordinatore nel mio Studio. Quando l’ho incontrato ho avuto la sensazione della similitudine tra Jacopo Ascari e un airone. Jacopo era allora ancora più esile di adesso, apparentemente un po’ spaesato ma molto capace di esporre le sue intenzioni e i suoi interessi. Non mi parlò ai tempi del suo amore per la moda, ma della sua passione per l’arte contemporanea, del suo sapersi esprimere attraverso illustrazioni e i temi dell’urbanistica e dell’arte. Non esitai un attimo a dirgli che avremmo cominciato da subito a lavorare assieme, cosa di cui ancora non mi pento, dato che il ponte fra me e lui continua a funzionare sotto vari aspetti.

Jacopo è una persona molto buona; perché parlo di questo come prima qualità, che ho imparato a riconoscergli? Perché le persone buone sono di solito molto intelligenti e rare.

Quando abbiamo incominciato a lavorare insieme, fin dai primi tempi, sono stata sorpresa dal fatto che più che annotare a parole, Jacopo annotava a disegni, come se in lui ci fosse uno spiritello capace di portarci, con una scrittura automatica (come nei grandi veggenti), a guardare tutte le cose attraverso i suoi schizzi che ci illustrano il mondo.

Ed ecco che nelle riunioni nei vari musei che abbiamo fatto insieme, Jacopo prendeva nota disegnando. Ogni render che l’amico comune Simone Faccioli costruiva sui miei progetti, era prima commentato e ricostruito da disegni, quindi simulazioni e animazioni, un lavoro prezioso che descriveva con un sentimento nuovo i miei progetti.

Che dire di Jacopo, ora, che lavora nel campo della moda e dell’urbanistica coniugando le due discipline su tavole che descrivono una Milano invasa di architettura attraverso le sue idee e attraverso donne che appaiono all’interno delle sue visioni delle città.

Io dico che sta andando verso una grande sfida importante.

Credo, spero, e farò di tutto perché la vinca.

L’ultimo lavoro UNSESSANTESIMODISECONDO è veramente bellissimo, se questa parola ha ancora un senso, ma nell’arte ce l’ha.

Si cammina in mezzo a paesaggi “monocromi” in cui il rosso prevale, dove gli elementi volano, volano tutti. Monumenti, case, ragazze vestite e abbigliate. Alti paraventi disegnati per una sfilata che sono quasi in movimento.

Gli dico tante volte che potrebbe costruire un’animazione, chissà, la storia della nostra amicizia che spero durerà sempre.

Chiara Dynys

Ascari e l’artificazione

Nell’opera di Jacopo, la moda esce da contesti di normalita’ per esperire nuove forme ed espressioni attraverso il linguaggio dell’architettura, il quale diviene, a sua volta, elemento per integrare, spettacolarizzandolo, il racconto della moda. In questo senso, il lavoro di Jacopo esemplifica dinamiche di artificazione, un processo che riguarda un cambiamento sociale attraverso il quale emergono nuovi oggetti e pratiche in contesti tradizionali. Alla base del processo di artificazione c’è l’estrazione o lo spostamento di una creazione dal suo contesto iniziale. Attraverso le sue tele, Jacopo esprime appieno il senso dell’artificazione interpretata come conseguenza di una generale oggettivazione della cultura che si verifica in molte società e della sempre maggiore sovrapposizione tra cultura alta e bassa che caratterizza la cosiddetta società della cultura.

 

Conseguenza della democratizzazione culturale che caratterizza l’era postmoderna, l’artificazione consente innumerevoli possibilità di scambio e di ibridazione nel mondo dell’arte e dell’architettura, anche dando a coloro che un tempo erano considerati outsider e gruppi emarginati la possibilità di entrare nel mondo dell’arte. E’ grazie all’artificazione, ad esempio, che generi come la breakdance, l’hip pop, la video art e la computer art hanno acquisito dignità e valore artistico. Il lavoro di Jacopo si innesta in questo scenario, descrivendo sapientemente  processi di ibridazione tra il progetto dell’ambiente architettonico e il progetto della moda. L’opera di Jacopo esprime  magistralmente l’equilibrio e l’armonia tra due opposti: la presenza simultanea di vecchio e nuovo, di patrimonio e tecnologia, di tradizione e progresso.

Come si evince dal racconto di Jacopo, attraverso l’artificazione, un oggetto cambia il suo status e subisce una trasformazione che porta quell’oggetto ad essere socialmente accettato e, quindi, legittimato: cosi’ avviene per la moda nella Milano degli anni ’80. Per essere artefatto, un oggetto deve essere tolto dai contesti a cui appartiene e fatto circolare, trasformare e scambiare dinamicamente. Cosi’ come i dipinti passarono dagli affreschi al cavalletto nell’Italia del XIV secolo, i graffiti furono fotografati e pubblicati nei libri e il jazz fu trascritto per la prima volta in notazione musicale, allo stesso modo, la moda, nella sapiente raffigurazione di Jacopo, esce dal suo habitat naturale per farsi parte integrante della architettura della citta’ in un dinamico processo di artificazione che consente alla moda stessa di acquisire valore artistico.

Marta Massi

Jacopo Ascari: racconti appassionati tra l’opera d’arte figurativa e quella architettonica.

“Non credo che la moda sia un’arte, ma ci vuole un artista per crearla”, disse una volta Pierre Bergé. E nel 1965 Yves Saint Laurent rese omaggio alla pittura di Mondrian e realizzò un abito che oggi viene esposto nei musei. Forse, per rispondere a Pierre Bergé in modo appropriato, si dovrebbe citare Marcel Duchamp: “Come produrre un’opera che non è arte?”

Anche la moda può essere arte, se presentata come tale in contesti diversi da cui si è abituati a vederla.

Da cento anni a questa parte, il sodalizio tra arte e moda non solo ha dato vita a grandi collaborazioni, ma è diventato l’esempio d’interazione più efficace per esaltare l’una e l’altra. La moda da sola non può imporsi senza un valore emozionale ed estetico, ha bisogno di alleati che le consentano di raccontarsi in modo invitante. Deve catturare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto e annoiato, ma spesso basta riscoprire la semplicità delle parole. Anche la narrativa è arte e l’arte, come la narrativa, è una necessità.

La collaborazione tra me e Jacopo Ascari è nata proprio per questa ragione: per unire lo storytelling letterario a quello visivo, rifacendoci a un glorioso duetto artistico del passato che ha unito illustrazione e racconto. Spesso ci definisco: la versione 2.0 di Paul Iribe e Jean Cocteau. Mi fa sorridere, ma è un paragone che rende l’idea di ciò che siamo.

Le opere di Jacopo Ascari che vedrete in questa mostra non si limitano a rappresentare la costruzione architettonica di un oggetto, sono proiezioni emotive del suo immaginario che abbraccia arti differenti; sono racconti appassionati tra l’opera d’arte figurativa e quella architettonica. Interventi ragionati sulle forme che danno alle sue immagini un segno distintivo, una continuità artistica.

Per quanto riguarda il colore principale delle opere: be’, sono certa che Jacopo abbia scelto il rosso per rendere omaggio a Diana Vreeland — e quindi anche a me, vista la mia devozione per lei.  Diana diceva: “Non potrei mai stancarmi del rosso, sarebbe come stancarti della persona che ami.”

Enrica Alessi

PROGETTO, MESSA IN SCENA, ESTASI

Un dialogo tra Jacopo Ascari e Marco Taranto

JA: Ciao Marco, innanzitutto la raccolta di lavori che compongono questa mostra è basata sul conflitto tra strategia ed emozione. Chiaramente, io non seguo alcuna strategia, non mi interessa. Tutto è basato sull’emozione, sulla folgorazione. E invece voglio sapere da te, che sei uno straordinario progettista: per te viene prima l’emozione o la strategia?

MT: Jacopo, ti ringrazio per le bellissime parole. Sono felice di partecipare ad un progetto con grandi potenzialità, dove per la prima volta si pone il focus su quello che è abitare lo spazio dentro la Moda. Dagli anni Novanta purtroppo la Moda ha sempre vestito l’uomo all’interno dello spazio e la strategia è arrivata nel momento in cui ogni brand ha cercato di imporsi in modo egocentrico nel mercato, con l’obiettivo ultimo della fidelizzazione del cliente, senza contare che questa può e deve essere data anche da un movimento all’interno del contesto.

Il mio motto fin dall’inizio è una frase di …. che afferma che “le atmosfere o gli spazi scenici sono sentimenti diffusi spazialmente” e cioè che un corpo all’interno di un vestiario si muove nello spazio creando dei propri sentimenti: questo è venuto a mancare. Con questo progetto credo tu stia evocando una nuova educazione estetica. Con educazione estetica intendo l’attenzione che poni sul muoversi di un corpo in un evolversi quale Milano, che, così attenta a verticalizzarsi nelle forme, ha dimenticato invece di verticalizzare la persona che la vive.  La strategia è una delle parole fondamentali che nutrono il progetto dalla fine dagli anni Novanta, a discapito dell’emozione.

JA: Marco, ti ringrazio perché hai citato un punto centrale e mi hai regalato una riflessione straordinaria: “le atmosfere o gli spazi scenici sono sentimenti diffusi spazialmente”. Hai così introdotto un altro termine centrale quale “spazio”, un concetto immediatamente riconducibile al contesto che ci ospita: Milano. Dico sempre che “non devo niente a nessuno se non a Milano” e tutti i miei progetti e i miei disegni, che si tratti di architettura, urbanistica o collaborazioni con case di moda sono idealmente testati su Milano, nelle strade, nelle piazze, nei palazzi e nei cortili. Ti voglio chiedere quindi: cosa vuol dire “testare il progetto”? E tu come metti in scena i tuoi lavori?

MT: Forse questa domanda non sarebbe da porre a me, ma vorrei piuttosto che mi chiedessi cos’è scaturito dall’incontro tra me e le tue opere, perché ciò che è fondamentale nel progetto è saper portare all’infatuazione per i pensieri del progettista, ed è quello che è avvenuto quando ho visto le tue opere, in cui ho ritrovato un fattore percettivo talmente efficace da apparirmi quale una presenza, un sentirsi realmente parte di uno spazio. Mi sono ritrovato all’interno delle tue opere, delle tue atmosfere. Lo spazio diviene tonalità emozionale che suggerisce un’impressione e questo avviene soltanto quando lo spettatore ne è effettivamente coinvolto. Credo che, nel tuo lavoro, il coinvolgimento sia dato dai tratti di colore che identificano visioni così specifiche su Milano. Questo tipo di bidimensionalità prospettica permette di perdersi in uno spazio avulso dalla quotidianità, ma che consente di percepire una città da diverse prospettive, al di là della cartolina, alla ricerca del punto di vista “brutto” sulla città “banale”. Mi sono divertito a perdermi nel tuo immaginario. Il mondo a colori che crei distoglie l’attenzione da quell’establishment altrimenti definito dalle strutture nere che innalzi. Quello che mi piace del tuo lavoro, Jacopo, è che appari ingenuamente contrario al cyberspace, il mondo esperienziale dominato dalla medialità. Tu vivi nell’esperienza, qualcosa che oggi moda e architettura non riescono a esperire fino alla fine.

L’estetizzazione del reale, il perenne “allestimento” del quotidiano, è quello che ci ha portato a costruire una città napoleonica all’interno della fabbrica Moreschi: la messa in scena viene vissuta realmente e non sai mai cosa si può e non si può davvero realizzare da qui a breve.

Caro, hai in te nello stesso momento l’actual fact e il factual fact, cioè la realtà fisica dell’immagine è definita da un’immagine irradiata dal colore: ma perché utilizzi alcuni colori specifici, rosso o giallo, colori primari e nuovi colori? Cosa avviene nel momento in cui “tingi” gli spazi?

JA: Caro Marco, hai utilizzato parole straordinarie e toccato temi altissimi, che non ho certo l’ambizione di poter evocare. In realtà, quando mi chiedi il perché di un colore, è come se mi chiedessi il perché di una forma: non lo so e non so quanto senso abbia chiederselo.

Quando disegno o dipingo tutto quello che mi preme è cogliere il “momento”, quell’estasi che chiamo “folgorazione”. Le idee arrivano quasi sempre inattese. Quello che mi affascina è soltanto creare le condizioni necessarie per rendere possibile l’alchimia. Come avviene la creazione? Può arrivare inattesa durante un viaggio. Quando ci si risveglia dal sonno nella notte o la mattina prima dell’alba. Non c’è niente che può rimpiazzare le idee, sono loro che, indifferenti alle ansie, precedono il progetto. Con gli occhi semi aperti ci appaiono i luoghi, e le situazioni. Ma quanto dura questa estasi, quant’è il tempo di un flash, di una folgorazione? Un sessantesimo, tutto accade in un sessantesimo di secondo.

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